joe strummer

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mercoledì 25 aprile 2012

This is the end (my only friend)


8 giorno

Ora è proprio finita, questo pomeriggio si ritorna. Per fortuna, non è proprio il primo pensiero che ho quanto mi sveglio. Del resto, 3 ore di sonno non sono tantissime e far ripartire il motore in queste condizioni non è sempre agevole. Ritento un colpo di coda, ma nulla, mi tocca alzarmi. Doccetta, valigia e provo un’ultima sortita al museo antropologico, di cui si parla un gran bene. Mi chiamano mentre sono ancora in alto mare con i preparativi, maledico salmodiando i primi santi del calendario la ristrettezza delle ore di sonno e mi abbandono al mio destino, nel quale il museo proprio non ci sta. Qualche ora dopo scopro che il museo di lunedì è chiuso e penso con un ghigno a cosa avrei fatto se mi fossi scapicollato per unirmi alla comitiva. Il mio programma per oggi è molto più modesto: giretto in centro finchè si può e poi tutti a casa. Per non tradire la tradizione del gruppo, impieghiamo un’oretta per radunare i partecipanti, prendiamo il nostro pullmino da 12 che ci scarica davanti alla cattedrale. La visita lascia  perplessi un po’ tutti, si tratta di un chiesone totalmente rinnovato, probabilmente del tutto simile alla vostra parrocchia o a quella vicina. Passiamo all’altro lato della piazza: Palacio Nacional. Un bel palazzo coloniale un po’ decaduto ma con una sua sincera dignità. Purtroppo appena entrati uno dei nostri companeros lo equipara al palazzo del film Il dittatore dello stato libero di Bananas e per tutta la visita il fato mi ha costretto a canticchiare la colonna sonora (quiero una noche, quiero...). Intendiamoci bene, vette tale incommensurabile classe cinematografica non sono quasi più state toccate.
Esaurita la canzoncina, lo stomaco brontola. Il contesto in cui siamo non è propriamente dei più amichevoli. A parte il caldone umido che rende i nostri passi pesanti un discorso di Monti, non è chiaro il confine tra i mendicanti e i ladruncoli. Nel dubbio, con una certa frequenza veniamo avvicinati da personaggi con un chiaro interesse per il nostro portafoglio. Rispetto alle nostre abitudini milanesi, qui le richieste sono però molto più pressanti e, cosa ancora più affascinante, l’affetto che viene dimostrato nei nostri confronti non scema neppure sotto i colpi delle monetine. Mi sa che la notizia della nostra simpatia si è diffusa più veloce dell’aumento del debito pubblico. In questo contesto, scegliamo per il pranzo un improbabile Pollo Indio, locale lungo e stretto ancora più caldo del normale, dove le pale che girano al massimo (uè furbetto, ho scritto senza doppie, eh) al massimo creano un effetto scirocco che ti fa rimpiangere McDonald’s. All’inizio, di dieci che siamo solo due si azzardano a mangiare, per gli altri solo bibite ghiacciate. Di questi, uno ha probabilmente gli anticorpi sviluppati in anni passati in Sudamerica, l’altro ha l’incoscienza scritta in fronte. Ovviamente, in omaggio al più famoso aforisma di Oscar Wilde, impiego 2 minuti per farmi convincere dalle lodi della cucina salvadoregna e alla sua presunta provenienza da allevamento ruspante. Comunque sia, il pollo è effettivamente buono, la reazione di Montezuma per il momento non c’è stata, ma per questo sappiamo che i tempi sono ignoti. Quiero una noche quiero ...

Ultima meta, la tomba di monsignor Romero. E’ nella cripta della cattedrale, in un luogo un po’ strano. Non si paga biglietto, non ci sono spazi di accoglienza, c’è invece un grande spazio vuoto centrale e la tomba in fondo a destra. Bassa, in marmo scuro, a richiamare il viso e la figura come per permettere di ricordarlo ancora a chi lo aveva conosciuto. All’altezza del cuore, una pietra rossa. Tutto sommato, considerando che si tratta della figura più rappresentativa della storia recente del paese, è un’opera modesta e assolutamente lontana dal kitsch, qualità che non avrei riconosciuto a questa popolazione, che probabilmente non sono stato in grado di decodificare in maniera soddisfacente nel corso di questa settimana.
La nostra visita, complice il caldo e forse anche il prossimo rompete le righe, si conclude a ritmi davvero pachidermici. Dopo un'attesa di mezzoretta, in cui tutti si abbandonano mollemente su muretti e scalini, arriva il pullmino che ci riporta in albergo e da qui all'aeroporto. E’ proprio ora di tornare. Quiero una noche, quero ...


lunedì 23 aprile 2012

Gruppo Vacanze Piemonte


7 Giorno

Ovviamente, il settimo si riposò. Le fatiche della notte hanno trovato un po’ di sfogo grazie alla giornata libera di oggi. Sveglia alle 9, solita colazione super e pullmino che ci aspetta per andare a Joya de Ceren, un sito archeologico maya non troppo distante da qui. Una parte di noi, soprattutto spagnoli, sono già partiti per andare a fare una gita per il vulcano San Salvador. Li attende una bella sgroppata e per questo sono partiti un paio d’ore prima di noi. Oggi, quindi, giornata di chiacchiere e di relazioni. Visitiamo un campo di lava, interessante per chi non è mai stato in Islanda, ma che in confronto ad altri scompare. Del resto Roberto, la nostra guida che poco oltre scopriremo essere in mezzo tra Fidel Castro e Bakunin, ci informa che in Salvador ci sono 100 vulcani, di cui 6 attivi. Uno di questi è San Salvador, proprio quello davanti alla capitale. Vabbe, tanto io domani me ne vado … Arriviamo al sito di Joya de Ceren senza problemi, passaggio al museo e finalmente iniziamo ad introdurci nel piacevole clima tropicale, cioè un discreto caldino e un’umidità imbarazzante, ma anche una specie di giardino botanico con un diluvio di colori, forme e dimensioni che lasciano tutti a bocca (semi)aperta. I più dotti di noi distinguono il croton, il caiun con l’anacardo sotto, ma anche la pallinuvia florina e la cadimonia piumata. Non li conoscete questi due, vero? Eccerto, me li sono appena inventati … Comunque, e questo non è uno scherzo, è davvero uno spettacolo. Le rovine dell’insediamento maya però lo sono ancora di più. Una perfezione e una modernità architettonica che ancora oggi lascia stupefatti, così come i tanti misteri che la leggenda di questo popolo si porterà dietro nei secoli. No, non fino al 21 dicembre 2012 perché, come ci hanno già detto in due, quella sarà la data in cui cambierà il calendario, non della fine del mondo. Mi dispiace dirvelo, ma dovrete continuare a pagare il mutuo anche per il 2013. Devo anche dire che queste rovine mi sembrano ben conservate e tenute. I bagni di servizio sono però una vera latrina e questo, nel rispetto del principio che prevede  che la civiltà dei popoli si distingue dallo stato di mantenimento dei bagni pubblici, dovrebbe aiutare a stringere più strette relazioni di fratellanza tra salvadoregni e italiani. In bus si era deciso di puntare poi al vulcano anceh noi, ma appena dopo la visita Roberto ci dice che a 5 km da qui è possibile visitare le piramidi di San Andres. E chi siamo noi per poterci permettere di saltare questa visita? E via, alle piramidi. Splendida costruzioni, se vogliamo anche un pochino inquietanti sia per l’ampiezza dello spazio nel quale sono collocate, sia per il senso di ieraticità che diffondono, sia perché Roberto ci racconta che qui si faceva il gioco della palla che non era proprio come il nostro calcio, ma che aveva un epilogo volendo anche più cruento delle partite più violente che conosciamo. Chi vinceva, infatti, che usasse il 442 o il 433, aveva il privilegio di essere sacrificato. E il sacrificio, mica era così, ti pugnalo e buonanotte. Eh, nononononono, cari miei, i maya avevano il loro bel senso dello spettacolo. Quindi, prima il cuore, tagliato ed estratto e poi una bella decapitazione, con tanto di desta rotolante giù dalla piramide e sommo gaudio della folla. Quindi, cari amici interisti, c’è qualcuno che con il gioco della palla aveva da rimetterci più di voi. A parte tutto questo, onestamente un posto bellissimo, uno di quei posti con la classica atmosfera magica, che non si può raccontare. Come Stonehenge, come la spiaggia di Vik. Se non ci credete, andateci.

Il gruppo vacanze Piemonte riprende il mezzo meccanico per l’ascensione al vulcano San Salvador, Ultima meta della nostra giornata. Quando la strada inizia a salire il nostro pullmino Hyundai inizia a soffrire le pene dell’inferno e un paio di volte anche in prima sembra tirare gli ultimi, ma in un paese che è stato in guerra fino all’altro ieri, una salita non sarà mica questo gran problema … Ad un certo punto anche il motore inizia a respirare e ci appare il ristorantino. Posto molto carino, aria decisamente meno spiacevole. Scopriamo di essere a 2000 metri e questo ovviamente spiega molte cose. Pausa pappatoria e ripartenza, ma solo per qualche minuto. Sulla vetta del vulcano, solito spettacolo di estrema peculiarità: parcheggio di 10 auto, in compenso troviamo almeno une ventina di bancarelle (non contiamo i battitori liberi) con ogni genere di generi di conforto e di scritte (su una c’era scritto Bienvenidos – Willkommen, per il piacere dell’unico turista di Colonia che hanno visto da queste parti negli ultimi 4 anni). Mangiare lì vorrebbe dire scatenare l’ira più furente di Montezuma, quindi passiamo oltre e arriviamo rapidamente alla caldera del vulcano, el boqueton. Lunga un chilometro e mezzo, profonda 600 metri, piena di verde dentro. Non so se mi sono capito, ma sembra il seti di un film di Indiana Jones. Oltre a questo però non c’è molto altro da vedere. Ritorniamo quindi in albergo, salutiamo la nostra guida extraparlamentare, ceniamo e poi seratina nei locali di Santa Tecla, che chi ci è stato la sera prima ci dice essere “come i Navigli, ma senza acqua”. Purtroppo scopriamo che tra sabato e domenica sera i Navigli se ne sono tutti andati e rimane solo una teoria di porte chiuse con un paio di locali aperti. Insomma, l’effetto è Riccione nel mese di novembre. Ci infiliamo in uno dei pochissimi aperti, peraltro semivuoto, e lo occupiamo militarmente. Ne usciremo a note fonda, ma la mia serata non è ancora finita. Il bicchiere della staffa viene magicamente riempito e contemporaneamente mi parte la riunione più notturna che abbia mai fatto (e, spero, che farò mai in tutta la mia vita). Torno a dormire che ormai albeggia, piuttosto confuso dalla riunione e sicuramente dall’orario di allettamento, che non toccavo ormai dalla mia ruggente gioventù. E adesso però  basta riunioni!






Titoli di coda

Giorno 6, data astrale 12799.27
Siamo allo showdown, direbbe qualcuno dei miei companeros. Oggi, sabato,  dovrebbe essere (anzi, sarà) l’ultimo giorno attivo di riunioni. Oggi la sveglia è arrivata un po’ prima, e non è stata sonora. Montezuma si è vendicato anche su di me, sembra però in maniera abbastanza leggera, fortunatamente (sembra…). Detto in altri modi, siccome Bella ciao pare essere l’unica canzone comune tra italiani e spagnoli, questa mattina mi son svegliato e ho trovato l’invasor (ma era dentro di me, direbbe Quelo)

A parte queste piacevoli interruzioni, oggi conclusioni finali. Si chiedeva al gruppo di trarre delle conclusioni e di formulare delle proposte stante quanto è stato detto e visto in questi giorni. Praticamente, ci si chiedeva come salvare il mondo. Ho proposto subito la clonazione di Del Piero, ma come sempre predico nel deserto. Ogni gruppo, all’incirca di una ventina di persone, si è riunito in una forma di braistorming per analizzare prima i problemi e poi per proporre delle soluzioni, come se esse fossero possibili, che sarebbero poi state passate al Presanca, che, se non l’ho ancora detto, è la rete locale centramericana che sta lavorando su questa materia da ormai diversi anni. Un lavoro nel quale mi sono un po’ sentito imbarazzato e sul quale ho delle riserve operative, ma pazienza. Se solo potesse essere utile al raggiungimento di un solo obiettivo, sarà stato utile. Vedremo.
Rotte le righe, mi pare di annusare subito un’aria da vacanza. Si ricomincia a cazzeggiare, viene fuori una chitarra e, incredibilmente, parte La locomotiva. Sono basito e me ne torno a testa bassa verso la mia cameretta, dove una simpatica signora gridandomi “Limpieza” mi caccia fuori dalla camera. Scribacchio un po’ e alle 4 (da intendersi con quarto d’ora accademico canonico, come tutte le cose qui) partiamo per la prima gita fuori porta  (nel senso di fuori dalla porta dell’albergo). Una bella camminata di un quarto d’ora verso il mercatino artigianale. E buttalo via! Nella nostra breve camminata, facciamo però in tempo ad incontrare i vigilantes dell’albergo, in mimetica e zainetto nero e quelli di un locale che non ho meglio identificato, in più modesti abiti, ma entrambe le coppie dotati di simpatici fucili a pompa che sfoggiano come l’abito della prima comunione. Anche il mercatino ha un suo guardione, ma la sua più proletaria caratura si evidenzia dalla volgarissima pistola che lo stesso tiene un po’ di lato, quasi vergognandosene (questo lo dico io, ma credeteci, fa molto libro Cuore).
La pioggia ci sorprende nel canneto, anzi no, quasi davanti all’albergo, dove oggi è stato un andirivieni di spose, abiti lunghi, damigelle di 5 anni  vestite come Moria Orfei, auto di lusso e limousine dell’albergo. Mi sembra che qui il kitsch ha vinto tutte le battaglie per abbandono degli avversari. Giusto il tempo di lasciare in stanza i nostri trofei e si ricomincia  con un’altra riunione sotto il tucul dell’albergo, una volta tanto autoconvocata e “dal basso “ (siiii, finalmente ho scritto anch’io il principe dei luoghi comuni!). Mi pare che in un’oretta di riunione caviamo più decisioni materiali di una settimana di visite in campo, ma forse è anche grazie a tutto ciò che abbiamo accumulato in queste giornate di convivenza che la cosa, almeno al momento, funziona. Cena e fine giornata? Quasi. Per protestare contro noi stessi, un gruppetto di 9 coraggiosi decide si non cenare in albergo ma di trovarsi un nuovo posto. Realsan ringrazia e prendiamo 3 taxi che ci portano al Cafè cafè, che dovrebbe essere un ristorante peruviano. Mi aspetto in luogo incasinato con cibo a basso costo e insopportabile musica andina e mi trovo l’esatto opposto. Ci balena un istante di preoccupazione quando il tassista  inizia ad inerpicarsi tra stradine buie e ci scarica davanti ad una porticina senza un’insegna. Entriamo finalmente nel ristorante e mi trovo in una replica di un ristorante milanese: signora di classe di mezza età che ci accoglie in divisa bianca, toni pastello, molti tavoli vuoti, musica chillout. Iniziamo a valutare la fuitina, ma ormai i taxi sono fuggiti da tempo. Ebbene, beviamo anche questo calice. Alla fine usciremo con un conto che per un salvadoregno sarebbe un po’ problematico, ma dopo aver mangiato ottimamente e aver scherzato con i camerieri vestiti da pinguini. Insomma, come al solito, prima provare, poi giudicare. Il ceviche è (era) buonissimo. Forse ho rischiato la salmonellosi, ma anche questo lasciamolo alle slinding doors.  Stavolta sembra che la chiusura sia avvenuta con perfetto tempismo

sabato 21 aprile 2012

Meet el Presidente


E fu sera, e fu mattina, quinto giorno. Sveglia finalmente ad orari umani  (si fa per dire, sempre le 6.40 erano…). La colazione non si presenza sotto i migliori auspici, arriva al tavolo la classica coppetta di sottaceti che ci fa temere il peggio, e in effetti le previsioni vengono rispettate. Arriva di default un piatto con frittata con i funghi, bastoncino di pesce un po’ smunto (la mia dirimpettaia ipotizzava, per il gusto pieno, pangasio), palletta di fagioli e altre meraviglie salate. Fa eccezione il solito pezzo di papaia, che però non è buono come quello dello Sheraton. Del resto, noblesse oblige.
La giornata di oggi è fondamentalmente dedicata al trasferimento in Salvador. Passiamo la dogana senza particolari difficoltà, una volta tanto, sorpassando la teoria di camion stile Duel parcheggiati su entrambi i lati delle strade, in modo da costringere le auto ad una specie di senso unico obbligato e ritorniamo nella querida patria. Destinazio9ne Candelaria del la Frontera, dove arriviamo dopo aver viaggiato praticamente tutta la mattina. La nota più interessante è una discussione sulla partecipazione e le forme della politica che avrei voluto tanto fare ad Agrate, ma che purtroppo non è un gran terreno per questi aspetti. Bella, molto arricchente, fatta da persone che sanno dove sono, che mi pare spesso suonino la musica che piace a me, che lavorano con i miei stessi obiettivi. Naturalmente non la pensavamo tutti nello stesso modo, però chssenefrega. Potessi parlare con queste persone più spesso, forse la politica mi piacerebbe un po’ di più. Amen, carpe diem. Nel frattempo, intercettiamo un meraviglioso spettacolo da povertà estrema: uina discarica non so quanto ufficiale e un sacco di persone in cima ai cumuli alla ricerca di materiale da recuperare, con un odore da girone infernale e il resto immaginatevelo da soli.

Arriviamo al nostro obiettivo e veniamo separati in tre gruppi. Io vado a vedere un impianto di compostaggio. Mal me ne incolse, ma pazienza. Forse la deformazione professionale mi ha giocato un brutto tiro. Dopo questa bella esperienza, riprendiamo il viaggio e andiamo a pranzo in un ristorante, ovviamente a mezzoretta di strada, tanto per non perdere l’occasione. Cibo buono, suonatori di marimba intollerabili (come ieri sera, non potevo mica scrivere tutto…) e spettacolo finale con ballo tipico con clangore di spade finale. Mancava che uscisse pulcinella e poi eravamo a  posto. Da qui, finalmente ritorno a San Salvador, dove vediamo, tra i mercatini fatti lungo la strada, il solito panorama (bello) con le montagne in lontananza , i soliti sorpassi a destra che ormai non mi fanno più né caldo né freddo (anzi, se volete venire con me in macchina appena torno, siete avvertiti) e i soliti rifiuti lungo il ci8glio della strada, anche un’operazione di polizia, con due ragazzi faccia al muro e mani dietro la nuca, all’americana. Non so cosa sia successo dopo, ma forse è meglio non indagare.

Il programma prevede di tornare in albergo, incipriarsi il naso, sbarbarsi, mettersi il vestito buono e andare ad un appuntamento di eccezione, ricevimento con il segretario generale del SICA, il sistema di integrazione centramericana, in altri termini l’equivalente centramericano dell’Unione Europea. E scusate se è poco. Il perenne ritardo con il quale abbiamo fatto le cose in questi giorni ci accompagna anche oggi. Il nostro pullman non ferma in albergo ma ci porta direttamente nella sede del SICA, dove ci viene detto che non torneremo in albergo ma che saremo ricevuti dal Segretario Generale in maglietta puzzolente e calzoni sporchi. Comprensibile giubilo generale e occupazione militare della sala convegni, in attesa dell'arrivo del grande capo, prevista entro una mezzoretta. Scatta istantaneamente la deficienza goliardica e tutti si mettono a farsi fotografare seduti al tavolo dei relatori o al microfono del Segretario, finchè, a scatti finiti, lo stesso si manifesta a noi in tutta la sua beltade. Breve relazioni, interventi fiume, qualcuno un po’ mieloso, qualcuno decisamente mieloso, ma è un po’ nella logica del momento. Di fatto, tra di noi le cose ce le siamo già dette (a dire il vero, cosa pensino gli spagnoli non lo sapevo, ma dagli interventi non ho notato riflessioni molto diverse dalle nostre), anche quelle che non si possono dire in pubblico e un evento come questo ha più un significato simbolico, in questo senso credo molto importante, piuttosto che materiale.  Rimane quindi il gesto politico davvero rilevante di una figura istituzionale così importante che decide di spendere un paio d’ore con un gruppo come il nostro per ascoltare le nostre impressioni.  Per il resto, molto va visto come gioco delle parti. Rinfresco direi all’altezza della situazione e poi, via, verso l’agognato albergo, dove facciamo in tempo  a vedere l’arrivo degli invitati ad una festa di matrimonio della high society salvadoregna, con signore (molte inguardabili) in lungo, teppetti vestiti da Al Capone  e sposa che arriva in limousine.  
Domani si discute di come salvare il mondo. Direi che anche oggi abbiamo fatto giornata.

venerdì 20 aprile 2012

Dies Irae


 


Giorno 4
E venne il giorno più temuto. Man mano che passa il tempo, però, il programma si è fatto un po’ meno hard. All’inizio, si prevedeva il pernottamento in famiglia, che è stato poi cancellato nelle successive versioni della pianificazione. Ieri sera, dopo la giornata campale e il finalino sulla cosmogonia Maya, che ha prodotto morti e feriti come manco un libro di Alberoni, la colazione alle 5.30 si è trasformata in colazione sull’autobus alle 7. Sceso in perfetto orario (come sempre, ovviamente), ho trovato i più mattutini comodamente seduti al tavolo. Altro cambio di programma e vai di colazione comodamente seduti!

Il trasferimento non è dei più agevoli, perché la parte finale è sempre uno sterrato con pendenze che fanno sembrare il San Fermo un cavalcavia, ma sopravviviamo anche a questo. Arriviamo ad Olopa, ridente (insomma) cittadina (beh quasi) guatemalteca (e questo è sicuro) a 2000 metri , ovviamente paese contadino. Ambiente un po’ da brividi, con stradine strette, negozi bui ricavati dai box e gente per le strade che ti saluta come se fossi il Messia. Imparo da un fulminato spagnolo la seguente frase, che potrete riciclare in società: si Ronaldo es Cristiano, Messi es Dios. E scusa se è poco.

Ci becchiamo l’ennesimo briefing nel palazzo comunale, un luogo surreale dove al primo piano c’è una specie di bar/ mensa in un luogo totalmente buio e al secondo un campo da basket dove si affaccia qualche ufficio comunale. Cosa se ne faccia di un campo di basket un popolo con altezza don Lurio, è un mistero che non mi è dato di conoscere. Questo ennesimo saluto serve soprattutto a imparare come si dice pubbliche relazioni in chortì, dialetto del luogo e una delle 23 lingue ufficiali del Guatemala. Veniamo poi trasferiti alle famiglie, previo ennesimo  evento comunitario con preghiera comunitaria celebrata da una specie di vice presidente della comunità. Conosco Enrique, che parte subito di buon passo verso la sua casa. Lui davanti io dietro. Finchè siamo in piano, passi. Poi il sentiero inizia ad inerpicarsi e lui mantiene la stessa velocità. Il mio allenamento alla corsa in montagna non è ancora perfezionato, ma la sorte mi regala l’arrivo prima che l’infarto sopraggiunga

Bueno, io sono solo, come da accordi. Lui abla solo espanol, io solo italiano. Seguono cinque ore di una frase ogni 5 minuti in espagnoliano, di sorrisetti quando non si capisce un tubo, da entrambe le parti, e di grandi analisi del tetto di lamiera sopra la mia capoccia. Diciamo che forse l’organizzazione avrebbe potuto fare uno sforzo in più. Era stato chiesto ai locali di invitarci a fare le stesse cose che avrebbero fatto loro, ma il nostro non pareva molto convinto di questo. In verità, dopo la mia decima richiesta, ho cordado la legna. Ammetto che la mia tecnica da tagliaboschi non è molto avanzata e questo ha significato che mentre Enrique con 10 colpi d’ascia ha segnato longitudinalmente il tronco con precisione teutonica, il vostro affezionato nei successivi 10 colpi ha disegnato un disegno di Kandinski sul tronco provocando l’ilarità del villico, peraltro normalmente sempre abbastanza sulle sue. Giretto intorno alla casa per vedere tutte le varietà di piante cresciute intorno. Finalmente vedo sta benedetta pianta del caffè, che, ovviamente, ha messo ora le gemme, quindi praticamente non si capisce nulla, più diverse altre, alcune delle quali a me sconosciute e una specie di pianta della famiglia della salvia, o almeno questo è quello che ho capito, alta 3 metri. Pranzo con tortillas e feijoles, loro dentro casa, io seduto fuori sotto il patio. Non sono mai entrato nella casa, tetto di lamiera e muri di fango e terra su un’intelaiatura di bambù, secondo la regola locale, e senza finestre se non un buco minimo da cui esce il fumo (almeno quello), ma da fuori sono riuscito a vedere il pavimento di terra pieno di buche e il fuoco sempre acceso, sul quale vengono cotte le tortillas e i fagioli. Mi danno da bere un liquido rosso ma qui mi viene in mente la Manu con tutti i suoi consigli e decido di fare lo stronzo occidentale e di salvarmi la settimana (almeno spero) evitando di ingerire una cosa che poi vengo a sapere essere fatta con dell’acqua che viene dallo scolmo di una vasca privata, opportunamente canalizzata. Un’ora al giorno per i campesinos, non esageriamo. All’ora stabilita, mi scorta verso il ritrovo e tanti saluti. Mi rimane un gusto amaro, composto dall’impossibilità di incidere nella vita di queste povere persone, dalla difficoltà di comunicazione, dalla distanza che comunque esiste tra le nostre culture ma soprattutto dalla consapevolezza che la nostra ha già vinto contro la loro. Parlando, mi chiedeva che auto avevo, che cellulari si vengono e quanto costano, dei negozi. Insomma, l’obiettivo, per loro è essere come noi e ovviamente in parte è normalissimo perché tra fare il taglialegna e schiacciare i tasti di un pc un po’ di differenza effettivamente c’è. I loro bambini però, in giro scalzi per i sentieri, col moccolo sempre presente e con i vestiti strappati, ridevano sempre. Giocavano con un palloncino, e ridevano anche quando si è bucato.

Buona notte Enrique, anzi buongiorno, visto che tra poco mi sa che ti sveglierai. E buonanotte a voi.

mercoledì 18 aprile 2012

In principio era il verbo, ma prima ancora il soggetto


Giorno 1
“Beato te che vai in Centramerica, chissà come ti diverti!”. Se tutti i divertimenti sono così, tanto vale che mi faccia monaco trappista.  Oggi si è iniziato tardino, verso le 10, ma poi è stato un fuoco di fila di presentazioni fino alle 19.30, con un’oretta scarsa di pausa pranzo e, soprattutto, 8 ore di fuso orario ancora sul grugno. E ancora oggi, non abbiamo ancora messo il muso fuori dall’albergo e temo che, dopo il briefing sulla sicurezza da parte di un funzionario ONU (quale onore!), anche i più temerari ora inizieranno a rifletterci seriamente prima di fare i gradassi.

A parte la stanchezza, la giornata ci è servita per immergerci nel clima, che da domani sarà campale, nel vero senso della parola. Oggi ci è stato spiegato come funzionano le cose da queste parti, cosa si attende il progetto da noi, quale situazione di partenza ci si parerà di fronte da domani mattina, quando inizieremo ad andare sul terreno a visitare non chiacchieroni come noi, ma lavoratori. La nostra missione sarà quella di visitare una mancomunidad, termine che pare sia poco traducibile ma che sovrebbe assomigliare a comunità, nel nostro caso sovranazionale. Visiteremo infatti questo strano soggetto politico-amministrativo costruito a cavallo tra Honduras, Guatemala e El Salvador, dove si stanno concentrando progetti e sforzi del progetto Presanca in materia di sicurezza alimentare, ma direi, più in generale, in materia sociale, visto che uno dei programmi più ambiziosi lì è quello di eliminare l’analfabetismo. Un obiettivo così ambizioso di pelle mi ha ricordato un po’ i progetti fame zero, ma non poniamo limiti alla divina provvidenza. Tutti sono un po’ preoccupati dalla giornata di dopodomani, quando saremo in visita (o in affiancamento) ad una famiglia guatemalteca, ma lasciamo tempo al tempo. Domani ci attende una levataccia alle 5.50, un bel viaggio in autobus e poi tre visite in Honduras e il pernottamente in Guatemala. Ce n’è abbastanza

Mi sembra, di nuovo, di aver visto cose un po’ strane ma anche molto belle. Un sacco di persone che lavorano nei progetti, che per noi possono sembrare passatempi da radical chic, mentre qui, magliettina d’ordinanza a parte, sono davvero attività che fanno la differenza tra vivere di stenti e vivere dignitosamente. Il luogo dove siamo dice però descrive lo stridore tra realtà e aspirazioni americaniste che mi pare di aver a più riprese notato. Avere camerieri in livrea che ti accompagnano la sedia non è proprio uno stato compatibile con i progetti di sviluppo, ma poi finisce che ci si lamenta sempre delle vacche grasse. Più frequento queste persone, più mi dispiace del fatto che in precedenza non ci siano state occasioni di costruzione di una rete.  Mi sembra proprio che, anche dalle relazioni che (tutte in spagnolo…) oggi ho sentito, la costruzione di un coordinamento sui progetti e la necessità di far conoscere esperienze e operatori sia  un problema comune a qualsiasi attività, ma, contemporaneamente, un passaggio sempre più indispensabile per cercare di governare una complessità che, diversamente, si può gestire solo con la forza o con risultati poco significativi. Aver però visto che le esperienze di rete, anche se partono da nulla, possono generare grandi risultati, dovrebbe darci il buon esempio per cercare di lavorare con maggiore attenzione in quesa direzione
 


Nella telefoto Ansa, potrete ammirare i partecipanti italiani alla missione in tutto il loro splendore. Purtroppo lo striscione della Juve era occupato e abbiamo dovuto far la foto davanti a questo.

Vabbè, 6 ore di sonno me le sono meritate, per oggi. Nano nano

martedì 17 aprile 2012

E guardo il mondo da un oblò, m'annoio una cifra

Giorno 0
Sono le 17.40, ora italiana. Quella locale proprio non saprei dire. Sono da qualche parte nel mezzo dell’oceano atlantico e di sotto  non si vede anima viva da 3 ore, a parte un peschereccio che ho intravisto un’oretta fa dal finestrino. Se a 900 km/h ci vogliono 2 ore, non voglio pensare quanto tempo gli ci vorrà per rientrare, ma per fortuna non faccio il pescatore.
E’ buio sull’aereo, o almeno le luci sono spente. L’atmosfera non si può dire entusiasmante: molti di noi, o almeno quelli che so essere del nostro gruppo, sono svegli da prima delle 5 del mattino e, a dare un’occhiata alle altre facce, non sembra che in molti abbiano avuto miglior sorte, almeno oggi. La metà di noi è intenta a guardare un telefilm d’altri tempi di cui ignoro attori e, fino a qualche minuto fa, esistenza. Davanti abbiamo la prospettiva di andare a dormire tra 12 ore, molte delle quali trascorse seduti in posizione da fachiro su questo prodigio di tecnica del terzo millennio. Certo, probabilmente l’aereo sarà più vecchio, probabilmente la scienza aeronautica sarà arrivata a estremi a me sconosciuti, ma per un ignorante della materia come me sembra già incredibile che si possa viaggiare a più di 120 all’ora. E poi, sull’acqua, senza nemmeno sfiorarla …
Finalmente poco fa sono riuscito a ricordarmi cosa significa non poter distinguere il cielo dall’orizzonte. Avrei voluto fotografarlo, ma cosa sarebbe uscito, un’unica macchia azzurra? Meglio vedere lo sfondo di windows, forse …
Per fortuna, oggi, paradossalmente, rallenta una vita vissuta nella lavatrice (passare da sopra a dentro è un percorso che dice già molto, ma questa è una battuta per pochi ed è giusto che tale rimanga). Solo ieri ascoltavo un operatore sociale che mi spiegava il senso del recupero della vita carceraria e oggi sono un po’ di metri sopra gli squali e le balene in attesa di assaggiare il platano locale. Anzi, proprio ora sto passando sopra a delle macchine chiare che potrebbero sembrare barche ma sono più propenso a pensare siano le increspature delle onde. Forse ci sono sempre stati, ma le nuvole spesso limitano il mio fondale ad un letto di panna montata o, più spesso, ad una nebbia lattiginosa neanche un po’ poetica. Il tutto, a 3000 km  dal più vicino pezzo di terra.

Ho un po’ conosciuto qualche membro della spedizione. Sarebbe spiacevole fare nomi e riferimenti, quindi parliamone in generale. Impegnati, impegnatissimi. Tosti, tostissimi. Speriamo che qualcuno svesta la corazza e la boria che per alcuni temo sia un po’ un marchio di fabbrica. Altri mi son simpatici a pelle, nella loro coerenza che non chiede nulla, nella semplicità non ostentata che dovrei tanto imparare anch’io. Ho un compagno di stanza di roboante fama. Io che sono qui per imparare sembra sia stato fortunato, almeno per questo. A volte il destino può essere beffardo (per gli altri, ovviamente, che io per certe cose credo di essere piuttosto adattabile)
Ora la nebbia si sta facendo abbacinante, anche se il tramonto dovrebbe avvicinarsi. E’ scaduto il tempo.

domenica 8 aprile 2012

Chissà chissà...

... che il blog non riapra. Magie della Pasqua